E’ stato accolto con un lungo applauso dall’aula, il discorso che l’arcivescovo di Trento, monsignor Lauro Tisi, ha pronunciato poco fa nell’emiciclo del Consiglio provinciale. Un incontro senza precedenti, questo tra la massima autorità cattolica trentina e l’assemblea legislativa, che a palazzo della Regione si è svolto prima dell’apertura formale dei lavori.
Monsignor Tisi ha toccato nel suo intervento i temi e le urgenze che sente in modo più pressante. La precarietà, anzitutto, come carattere distintivo della nostra epoca, che può anche essere colto però come provocazione utile per un cambiamento collettivo. Occorre – ha infatti detto il vescovo – costruire “strategie di comunità” per una soluzione positiva della crisi che benefici tutti. Tisi ha argomentato che le istituzioni – dalla Chiesa a quelle laiche e politiche – devono saper parlare all’uomo della strada, stare vicino alle sofferenze autentiche delle persone. Ampio il riferimento ai fenomeni migratori – e alla conseguente “convivialità delle differenze” in cui siamo immersi – altro segno dei nostri tempi da accettare e governare con apertura. Poi i giovani: conoscerli e rispettarli – ammonisce il capo della chiesa trentina – perché sono una nuova, grande questione sociale. Oggi stiamo negando loro la possibilità di esprimere quel potenziale straordinario che va messo a frutto in una ben determinata fascia di età, oppure si perde per sempre. I giovani purtroppo come categoria di esclusi, assieme ad altre fasce sociali che aumentano anche nel Trentino, pure vincente nelle classifiche nazionali della qualità di vita. Ci sono molte differenze di status e una società in cui aumenta questo gap, non può essere una società felice. Agli esponenti politici, Lauro Tisi ha chiesto di lavorare per costruire un mondo “a misura degli affaticati”, perché allora sarà un mondo buono per tutti.
FONTE: UFFICIO STAMPA CONSIGLIO PAT
Di seguito si riporta testo integrale dell’intervento dell’ Arcivescovo Tisi
“Per un Trentino patrimonio dell’umanità”
Anzitutto grazie per l’invito rivoltomi dal Presidente Dorigatti e dall’Ufficio di Presidenza. Sono consapevole di intervenire in quest’aula dove la parola, la vostra parola di eletti dal popolo per rappresentarlo e governarlo, diviene premessa di scelte politiche che incidono su questa terra e sulla vita delle persone che la abitano.
Una parte rilevante del nostro territorio, le suggestive Dolomiti, sono classificate “Patrimonio dell’umanità”. Se lo sono le montagne, mi vien da dire, non lo sono forse molto di più le donne e gli uomini della terra trentina, quelli di ieri e quelli di oggi?
Dico l’ovvio nel rilevare che siamo in un momento di grandi trasformazioni, accompagnate da inevitabile fatica. Ci sentiamo inesorabilmente precari, termine mutuato dal contesto lavorativo, di cui conosciamo le mortificazioni patite da tanti anche in questa Provincia. Ma la precarietà è ormai estesa all’ambito relazionale e sociale. Ai fondamenti, cioè, della nostra umanità.
Forse – lo sottolineo anzitutto alla comunità cristiana che qui rappresento – è giunta l’ora di leggere la precarietà come provocazione. A ripensare il nostro vocabolario e la nostra agenda. Troppo spesso a dominarli sono parole che evocano strategie economiche, pianificazioni finanziarie, trionfo dell’operatività, ricadute puntualmente misurabili. Il mio invito è a tornare all’”abc” della nostra storia, dove la precarietà è stata vissuta non come motore di un semplice solidarismo, ma come fonte di sviluppo e di innovazione. Ben prima di noi, dunque, il Trentino ha saputo trarre dalla precarietà uno scossone salutare.
Se abbiamo superato tante difficoltà, lo dobbiamo soprattutto al fatto di essere riusciti a considerare gli “altri” non come un limite, una diminuzione, ma come risorsa. La libertà di pensiero e di azione percepita non come minaccia ma come opportunità ci ha permesso di realizzare in vari ambiti conquiste significative.
Consentitemi allora un vero elogio del limite, quand’esso si traduce nella percezione che da soli non ce la possiamo fare. La storia di ognuno di noi lo potrebbe testimoniare: se privati della forza delle relazioni, finiamo imprigionati in noi stessi e preda di un amaro destino, la solitudine.
Ecco perché diventa storicamente determinante tornare a sviluppare strategie di comunità, attraverso scelte il più possibile condivise. Pur consapevoli che ogni soluzione, ogni piano di lavoro e ogni risultato sono sempre provvisori, e richiedono un dinamismo e una ricerca costanti.
In fondo, anche questa, almeno in parte, dovrebbe essere la motivazione che lega la “cittadinanza” e la trasforma in luogo di convergenza di “diversi” che si accordano reciproca ospitalità, vincolandosi al rispetto di un diritto che sottragga la vita civile all’arbitrio del particolare, del privato. Il legame è costituito dall’obiettivo comune, dalla tensione nel cercare il meglio per tutti e in particolare per chi fa più fatica.
Che cosa vuole dire, oggi, “abitare” una città, vivere dentro una “comunità” e governarla? “Se vuoi capire una città” – diceva uno dei maggiori sociologi del Novecento (Mumford) – non accontentarti di leggere la sua storia e di vedere i suoi monumenti, devi parlare con la gente nei mercati, nelle case, nei negozi”. Non c’è alternativa all’incontro con le persone lì dove esse vivono, operano, progettano, sognano.
Il rischio, anche per la comunità trentina, è quello dell’impoverimento delle “risorse umane”. Come diceva Hannah Arendt, filosofa della politica, occorre “ripensare una nuova politica, dove la partecipazione attiva e la responsabilità dei cittadini è considerata un bene e non un pericolo”.
Tutte le nostre comunità, dal centro alla periferia, sono immerse in quella che mi permetto di chiamare la “convivialità delle differenze”. La questione sociale degli anni Duemila si intreccia con il tema delle migrazioni. Anche nel nostro Trentino non si rapportano tra loro solo culture e religioni, ma persone concrete, chiamate a confrontarsi e dialogare. La convivenza è anche e soprattutto questione di cultura, di educazione, di formazione. Scrive Bauman (Fiducia e paura nella città, 2005): “Poiché gli estranei sono costretti a condurre la propria vita stando insieme – qualunque sia la piega che prenderà la storia di una comunità – l’arte di vivere pacificamente e felicemente con le differenze, e di trovare vantaggio da questa varietà di stimoli e di opportunità, sta diventando la più importante tra le capacità che un cittadino ha bisogno di imparare e di esercitare”.
Accanto alla sfida della convivenza, non posso non ricordare il grande tema riguardante il mondo dei giovani. Essi sono portatori di una diversità che va ascoltata, conosciuta e rispettata. Non si può trasmettere qualcosa a qualcuno che non si conosce. I giovani sono il “nuovo umano” che è nato e sta crescendo accanto a noi adulti.
Il mondo giovanile è la nuova grande questione sociale: la questione, cioè, di coloro i quali hanno meno di 35 anni, sempre più costretti a una marginalità vistosa, che si traduce nell’impossibilità di esercitare concretamente tutta quella forza e tutta quella novità che originariamente loro spetta. Nonostante ogni illusione, la titolarità della giovinezza non è cedibile. Si è giovani solo tra i 15 e i 35 anni e lo si è in tale preciso arco di tempo, perché le condizioni psico-fisiche che si hanno in questo periodo della vita non si ripeteranno mai più. L’averlo dimenticato è un grave segno di miopia da parte di una generazione adulta, concentrata spesso a salvaguardare se stessa, tanto da procedere a una vera e propria messa fuori gioco e fuori campo dei giovani, invece di offrire spazi di investimento alla loro energia e capacità di innovazione.
C’è urgente bisogno di una politica che progetti non “per” i giovani ma “con” i giovani. Lo dico alla comunità dei credenti e ai non-credenti. Lo dico da trentino della Val Rendena, pensando di parlare anche a nome vostro: ripartiamo dalla consapevolezza che il futuro della nostra autonomia passa dai giovani! Di più: essere autonomi significa avere la possibilità di progettare il nostro futuro. Liberando pensiero, sogni, opportunità. E di poterlo fare con creatività, in modo originale. Chi meglio dei giovani può aiutarci in questa impresa? Non si tratta, infatti, soltanto di incamerare rassicurazioni istituzionali e garanzie finanziarie. Ma percepirci come cantiere aperto, laboratorio politico e sociale, comunità che ritesse le trame della tela che la sostiene.
Ce lo chiedono i tanti esclusi, anche in questo nostro Trentino sempre sul podio della qualità della vita. “La disuguaglianza – titolava due giorni fa un quotidiano nazionale – non aspetta la politica”. Serve un’“agenda del buonsenso” e ci vuole solo la volontà di tradurla in fatti (Corriere della Sera, mercoledì 14 dicembre).
E’ bello e produttivo comprenderci dentro un tessuto di attese e di speranze condivise. La comunità di cui si fa parte non è la semplice somma di individui atomizzati, separati l’uno dall’altro, ma un “popolo” che pensa in termini di “noi”. Serve un impegno che sappia prendere decisamente le distanze da atteggiamenti qualunquisti o rassegnati.
Per fare questo occorre, come scrive Levinas, vedere nell’altro “un volto da scoprire, contemplare, accarezzare”. Tanto più in questo nostro amato Trentino, patrimonio dell’umanità.
+ Arcivescovo Lauro