L’ospedale di Fiemme, Fassa e Cembra e le questioni riferite al mantenimento dei servizi, alla piena utilizzazione delle unità operative presenti e alla riapertura con funzionalità al 100% del Punto nascite – da concretizzare non appena la terribile pandemia Covid-19, ancora purtroppo in corso, si avvierà a risoluzione – continuano giustamente a essere al centro dell’attenzione.
A tali ragionamenti si è ora aggiunto, e in maniera dirompente, il tema di dove realizzare il nuovo ospedale – che andrà affrontato presto e bene, trovando la quadra e fornendo il prima possibile la miglior struttura a residenti e ospiti, pensando non solo all’importante evento olimpico 2026 ma almeno ai prossimi trenta anni, nei quali rimanere a vivere in montagna dovrà essere possibile e con tutti i servizi fondamentali garantiti, a partire dalla sanità. Altrove, si legga Veneto e Lombardia, scelte diverse hanno contribuito allo spopolamento delle valli e alla fuga verso i centri più popolati e serviti: un epilogo che il Trentino di certo non merita e non deve perseguire.
Dico tutto ciò chiaramente e in apertura di questo mio ragionamento perché non è più tollerabile leggere interventi come quello della consigliera Coppola, i quali continuano a ridurre a mere cifre la questione degli ospedali territoriali, tirando una riga e facendo una sommatoria di costi, senza valutare gli impatti sociali e come un ospedale possa effettivamente costare meno se gestito al meglio e con una visione non città-centrica o, nel nostro caso, Trento-centrica.
A sostegno di questo, ricordo come a ottobre 2014 l’ospedale di Cavalese, dati alla mano, aveva un costo/posto letto tra più bassi d’Europa perché avere una struttura e i relativi reparti funzionanti al massimo del loro potenziale – e quindi con il punto nascita aperto h24, i medici e il personale a pieno regime, gli interventi programmati e programmabili e le corrette turnistiche garantite – fa in modo che le persone possano riferirsi sempre a esso e, è semplice da capire, ne aumenta la fruizione, permette ai medici di continuare a operare e migliorarsi e fa crescere, di rimando, la sicurezza dell’operatività e la percezione della sicurezza degli utenti stessi. Si tratta di un ciclo virtuoso che se interrotto porta a quanto abbiamo visto; da ottobre 2014 a oggi è saltato un assessore alla sanità, i punti nascita – non solo quello di Cavalese – sono stati chiusi, le presenze di medici e servizi sanitari nelle valli sono venute a mancare o sono state ridotte. Fortunatamente cittadine, cittadini, medici, infermieri, volontari e amministratori, in valle come in provincia, non si sono arresi alla narrazione del “non si può fare diversamente” e hanno dimostrato, scendendo in piazza – ricordiamo ancora la sfilata delle mamme in attesa con scritto sui pancioni “voglio nascere a Cavalese” – e lavorando nelle sedi opportune che una alternativa era possibile. Abbiamo chiesto,e ottenuto, dal percorso Punto nascita nazionale di avere standard speciali per luoghi speciali, quali appunto le nostre terre di montagna sono, abbiamo combattuto anni per rivedere la riapertura e il rafforzamento del punto nascita e il potenziamento di reparti quali il Pronto Soccorso, la chirurgia, l’ortopedia e la ginecologia che a oggi sono stati spesso dichiarati ma mai completamente attuati. Abbiamo, su tutto, visto con i nostri occhi quanto conti, in caso di pandemia,avere presidi sanitari valligiani.
Come ammesso anche dai vertici dell’APSS e dal dirigente del Dipartimento per l’azienda sanitaria si sono rivelati di cruciale importanza nella lotta al Covid-19, in appoggio a Trento, sia i nosocomi di Rovereto e Arco che quelli presenti in tutte le valli: luoghi strategici per accogliere i malati e curarli e, ora, per compartecipare a vincere la battaglia contro un virus che ancora non è conclusa e deve vederci uniti. E’ lampante come avere la possibilità di curare nelle valli vada incontro al bisogno di tutela e salute delle trentine e dei trentini e di chi ogni anno sceglie i nostri monti per un soggiorno o una vacanza. Avere un ospedale, una casa della salute o un ambulatorio permette, soprattutto alla popolazione anziana residente e a chi ha problemi di spostamento, ma non solo – pensiamo alle famiglie con figli piccoli, dove entrambi i genitori lavorano o a chi da stagionale in albergo non ha mezzi di trasporto propri, tanto per fare altri esempi – di sentirsi più sicuri e porta a essere più propensi a rimanere a vivere in una valle. E pure di questo il Trentino ha bisogno: che i nostri figli e i loro figli possano e vogliano scegliere di stare dove sono nati e cresciuti.
Per questo, pur riconoscendo gli evidenti sforzi compiuti dall’assessorato alla Salute provinciale e dall’Apss in questo ormai abbondante anno di emergenze, risulta evidente la necessità di accelerare e, in particolare, credo risulti fondamentale rimettere al centro della discussione la ricostituzione dei distretti sanitari e, con essi, riportare in auge un modello organizzativo che veda come veri protagonisti gli ospedali e le strutture di valle, le quali, come abbiamo visto anche in questi terribili mesi, stanno risultando essenziali – e sempre più lo saranno in futuro – non solo per la gestione delle emergenze e di nuove ondate che potremmo essere chiamati a contrastare (pur sperando che la quarta ondata non ci sia) ma anche per continuare a fornire servizi sanitari fondamentali quali il primo soccorso, una ortopedia di eccellenza (è il caso specifico di Fiemme), il punto nascita, la prevenzione e l’ordinaria amministrazione chirurgica, sanitaria e di riabilitazione che oggi grazie a un ospedale territoriale possiamo avere e che rischiano di essere posizionate in secondo piano o addirittura sparire se i nosocomi di valle vengono depotenziati o, peggio, chiusi. Posso dire, in conclusione, che l’idea di “ospedale diffuso” bene sembra sposarsi con le caratteristiche del nostro Trentino se questo significa riportare al centro del sistema sanitario la Persona e i suoi bisogni di sicurezza e sanità. Al contrario, se le persone dovranno sempre più allontanarsi da casa per andare verso il Centro città o verso centri specialistici, magari privati e per questo più costosi come il modello lombardo-veneto degli ultimi venti anni ci ha dimostrato, l’ospedale diffuso diverrà solo “ospedale inesistente” o basato sul censo, andando a ledere i diritti di tutte le nostre comunità. Certamente molto resta da fare e, nel mio ruolo di consigliere provinciale e abitante di una valle, sono pronto a continuare a fornire il mio contributo in questo processo di trasformazione, seguitando, come sempre fatto negli scorsi anni, a lavorare affinché la sanità territoriale non venga smantellata o impoverita ma, anzi, garantita e fatta crescere secondo i bisogni delle nostre concittadine e dei nostri concittadini. Solo avendo ospedali di valle supportati al massimo e portati al top delle loro potenzialità, infatti, potremo essere certi di poter fornire servizi sanitari e qualità della vita, a chi vive o sceglie di venire a soggiornare nel nostro Trentino, mantenendo nel contempo i conti in regola. Pensare di procedere con tagli lineari alla sanità valligiana senza considerare quanto appena esplicitato non significa fare economia di scala ma macelleria sociale. Cons. Pietro De Godenz
FONTE: Quotidiano L’ADIGE del 29 aprile 2021